Anno XV - N. 46 - Inverno 2004/2005 - pp 34/35
Cristina Bonucci - Labili tracce d'esistenzaTesto critico estratto dalla Rivista
Da tempo Cristina Bonucci lavora con l'impronta del corpo - non importa se della modella o il suo -, liberandosi via via della prima influenza antropometrica kleiniana fino a raggiungere un'astrazione sempre più pronunciata, tanto che resta difficile identificare le parti anatomiche "impresse". In questa sede, vogliamo soffermarci su un'opera di Bonucci che, sebbene di qualche anno fa (1999), non è stata mai esposta né pubblicata, quasi l'artista abbia preferito lasciarla a "maturazione", e comunque è indice di un lavoro che, al di là degli sviluppi, non teme i segni del tempo, ancorchè non lunghissimo. Questa opera è seriale, essendo composta da quindici dittici - ciascuno dei quali può anche avere una vita autonoma - la cui prima parte è comune a tutti (si intitola La morte è lo scheletro ed appare con due cerchi, o buchi, accostati orizzontalmente), mentre la seconda varia, assumendo, di volta in volta, una denominazione diversa. Siamo di fronte, dunque, ad un'opera complessa, già nella sua stessa composizione materiale, che richiede un'analisi particolareggiata per poterne cogliere appieno il significato globale: questo - diciamo subito e in via preliminare - consiste in una metafora della vita, tanto in generale quanto di quella individuale e quotidiana, anzitutto dell'artista stessa, cioè si tratta di un'autoriflessione capace di coinvolgere il senso dell'esistenza di ognuno. La morte come scheletro è un'icona ricorrente nella storia dell'arte, ma qui il concetto è espresso con un'affermazione verbale non con la rappresentazione imitativa: infatti simbolicamente sono disegnati due "buchi" - la morte come un buco nero senza fine - che potrebbero, però, essere due zeri, i quali accostati diventano il segno matematico dell'infinito, cioè la morte come nulla infinito; ma potrebbero anche essere due occhi, scavati e vuoti come quelli di un teschio, che "guardano" lo scorrere della vita verso la morte. Così quella morte che accompagna l'uomo fin dal suo nascere, come recita una famosa poesia leopardiana, accompagna la successione - non predeterminata - dei quindici altri elementi dei dittici. Questi si presentano con segni non sempre facilmente identificabili, ma sappiamo che sono le tracce dell'impronta del corpo (di una spalla, di una gamba, del pube, di un braccio...): sul piano formale, abbiamo dei segni minimi che applicano il motto di tanta arte dal primo Novecento in poi, "nel meno il più", anche se senza le utopie progettuali di chi lo coniò; sul piano dei contenuti, quei segni vanno letti, per una comprensione più penetrante, assieme alle titolazioni che sono ora narrative ("non potete dire niente di me"), ora evocative ("maternità"), ora descrittive ("sembrano i capelli di un volto invisibile"), ora di condizione banalmente quotidiana ("che palle, fan culo!"), ora di condizione esistenziale ("la spirale della vita"), ora ermeticamente concettuali ("sequenza I"), e si potrebbe continuare, indicando la "denuncia", "l'affermazione di sè", o altro ancora, oppure dare diverse significazioni. Resta il fatto che questi quindici dittici rappresentano certo una sorta di autobiografia sincronica dell'artista ma al contempo evidenziano la condizione umana, sia nella sua precaria ontologica esistenzialità sia in alcuni dei suoi singoli momenti di cui quella non è altro che una (breve) sequenza, infatti dell'esistenza non si dà mai, né prima né durante né dopo, un'immagine totale e definita bensì solo frammenti o, appunto, "tracce", "impressioni", sempre in movimento e in cangiamento, che solo un segno - di matita, di colore, di un n° 14 (che l'artista preferisce non indicare più chiaramente), o di diverso materiale - può fissare, ma sappiamo che poi la realtà dell'immagine rappresentata subito dopo non esiste più, è "diversa", non potendoci bagnare due volte nello stesso fiume, come dichiarava l'Oscuro di Efeso, poiché l'acqua del fiume non è mai la stessa, né può avvenire meglio se adoprassimo una tecnica più avanzata, quale la fotografia o la ripresa video-cinematografica. Se, infine, il destino umano è la precarietà e dell'esistenza non può darsi immagine definitiva e completa, ma solo incerti e indefiniti segni, l'unica via di "salvezza" consiste nell'accettazione della propria condizione, con la speranza o con la serena consapevolezza, senza cedere all'inutile illusione o all'angoscia disperata: di questo ci dicono i dittici di Cristina Bonucci.Giorgio Bonomi Direttore di Titolo
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