Il Corpo Di-Spiegato
Sanjay Tikku
Filosofo docente all'Università di Hong Kong
Tra i teorici dell'arte e della cultura contemporanea, il corpo umano è uno spazio aspramente conteso. Ciascuna fazione sembra volersi impossessare del corpo per i propri fini - è un concetto in crisi, insistono, un costrutto che ha urgente bisogno di sovversione, riconfigurazione, decostruzione, snaturalizzazione. Mentre imperversano queste dispute, viene spontaneo domandarsi: Che cosa è in gioco? Come è che il corpo umano è diventato un tale terreno di battaglia ideologico? E come attiene questo (ammesso che attenga) all'attività dell'artista?
Le radici dell'attuale "crisi" - seguendo per un momento l'iperbole - sono di solito rintracciate in una rottura profonda e irrisolta nella filosofia moderna. Tale rottura coincide con la separazione di mente e corpo, soggetto e oggetto, dell'essere umano come agente e dell'essere umano come cosa. Secondo questa versione della storia intellettuale il peccato originale venne commesso da Cartesio quando separò - almeno per fini esplicativi - mente e corpo, e così facendo privò il corpo di vita, riducendolo a una mera cosa, un mero oggetto, una mera macchina. Il lascito intellettuale di questa visione, così ci è detto, è che oggi concepiamo il corpo come separato da noi, come una macchina, un contenitore, un veicolo, uno strumento. Questo è a scapito del riconoscimento della nostra esperienza vissuta - non la nostra esperienza del corpo, poiché descriverla così vuol dire già accettare una separazione tra noi stessi e il nostro corpo, ma la nostra esperienza di creature incarnate. Le arti visive, così continua l'ipotesi, sono parte di questa congiura quando prendono il corpo come argomento di studio, da esaminare, investigare, guardare; secondo questa teoria, per l'artista il corpo è meno di una macchina, è un manichino.
Su questo sfondo di minuziosa indagine critica e di controversia, risulta difficile esaminare il corpo senza allinearsi con l'una o l'altra posizione, o peggio, scadere in un qualche luogo comune artistico. Sia dal punto di vista intellettuale che da quello artistico, il terreno del corpo è già stato, sembra, troppo dettagliatamente mappato. E tuttavia, è proprio questo che Cristina Bonucci riesce a fare nelle opere in mostra. L'artista offre una prospettiva sul corpo e sull'esperienza della corporeità che è fresca e libera dagli impedimenti di tali polemiche stantie.
Gli elementi della pittura di Bonucci sono familiari; quello che colpisce in essi sono i particolari mezzi con cui la corporeità viene dichiarata. L'immediatezza della loro espressione - ottenuta tramite l'apparenza del contatto diretto tra corpo e tela - ci conduce faccia a faccia, guancia a guancia, nocca a nocca, con il corpo vissuto. Nella loro immediatezza fisica ci ricordano - se ce ne fosse bisogno - che nell'arte come altrove, il corpo è vissuto, non solo osservato. Al tempo stesso, queste opere non sono nè esibizioniste nè voyeuristiche; il loro realismo è psicologico più che grafico.
Le sue giustapposizioni trovano facilmente posizione sullo spazio pittorico; le immagini sono riconoscibili - ovvie, persino - eppure non c'è artificiosità nel modo in cui sono inserite. Non c'è alcuno sforzo esplicito per significare conflitto o armonia, opposizione o fusione, desiderio o distanza. Questa reticenza, questa negazione deliberata della narrativa di fronte a un contenuto familiare, sono forse quello che fornisce l'impatto psicologico ai dipinti. C'è infatti qualcosa di in-soddisfacente nella loro riservatezza, qualcosa di psicologicamente incompleto, qualcosa di abortito. Essi registrano momenti particolari di azione e sensazione ma, per così dire, si fermano nel mezzo della sensazione - non nel mezzo dell'azione o del pensiero, ma della sensazione. La loro riservatezza ci invita - o addirittura ci costringe - ad incontrarli a metà strada. Non possiamo tuttavia farlo nel modo solito, ovvero completando l'azione con l'immaginazione, inserendo azioni e motivi e impulsi che guidano la narrativa. Per "completare" la sensazione arrestata a metà dobbiamo rivolgerci altrove. Si è costretti a scavare nel proprio passato, a guardarsi dentro per trovare una traccia della propria esperienza vissuta.
Consciamente o inconsciamente, in queste opere Bonucci ha toccato il centro delle questioni filosofiche riguardanti il corpo. Si rivolge all'esperienza corporea nel momento preciso in cui le categorie filosofiche tradizionali si incrociano e rischiano di venir meno: il punto nel quale l'individuo assume la posizione di soggetto e oggetto; il punto in cui si è allo stesso tempo passivi e attivi, agente e paziente. Queste non sono immagini di corpi brutalmente spinti contro una superficie resistente (come per esempio in certe opere di Sue Arrowsmith); queste non sono immagini di corpi dentro i quali o sopra i quali l'apparecchio fotografico è stato brutalmente spinto. Questo è il corpo vivente descritto nel momento esatto in cui si inscrive sopra un altro, questi sono i segni della carne sulla carne; questi sono segni lasciati dall'atto di marchiare.
Spesso si dice, a volte come replica pungente verso coloro che cercano di spiegare l'arte, che le sole cose che contano nell'arte sono le cose che non si possono spiegare. Forse c'è verità in questa asserzione, ma esclude anche qualcosa di importante. L'universo abbonda di cose che non possiamo spiegare; quello che rende l'arte speciale è che ci presenta cose che non possiamo spiegare e al tempo stesso ci spinge a volerle spiegare. Ci porta faccia a faccia con cose che non possiamo spiegare, ma lo fa in un modo che ci fa continuare a guardare, in un modo che ci fa voler comprendere. Quello che importa è che risvegli in noi questo desiderio, che ci faccia provare o sforzare per arrivare a una spiegazione, ed è per questo che l'arte vale.
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